Il tempo in Africa non sembra scorrere nella consueta linea dal passato al futuro. Il tempo qui pare immobile da sempre. Sulla costa sabbiosa del Togo osservo con la fotocamera in mano il rito antico della pesca. Una lunghissima rete di mezzo chilometro viene buttata in mare formando un ferro di cavallo, mentre le sue due estremità vengono assicurate a riva con saldi nodi ai tronchi delle palme da cocco.
Una notte intera la infinita rete viene lasciata così a U al largo in questo placido golfo di Guinea. Il giorno seguente cinquanta donne e uomini forti sembrano giocare al tiro alla fune. In due gruppi, sempre e solo dalla battigia, si tirano le pesanti reti per sottrarle alla pancia del mare.
C’è un villaggio intero a procacciarsi la cena, tutti al ritmo di un anziano esperto che con un fischietto di legno regola tempi e movimenti del gruppo. Sembra una danza di marmoree statue nere nell’estremo gesto di lottare contro l’oceano. Due ore di sforzi, di mani rigate, di acqua in faccia, di sudore insabbiato. Due ore dure per portare a riva il “cul de sac” della rete con il suo bottino di pesci. Un’ovazione sale al cielo, un grido di gioia e di sfinimento, un grazie agli dei per il raccolto. La pesca viene poi suddivisa secondo criteri a me sconosciuti, ad alcuni il denaro ad altri il pesce, ma puoi star certo che se hai lavorato qualcosa ti spetterà.
Qui nella parte occidentale del continente si pesca così da sempre, dai tempi dei tempi e a nessuno viene in mente di cambiare le regole del gioco. L’Africa è in questo che continua a stupirmi: nel non cambiare. Lo stesso gesto seppur scomodo, seppur inefficiente viene ripetuto all’infinito, da madre in figlia, da sempre e per sempre. Il continente nero mi sembra destinato a perpetrare, preferendo l’eterno copiarsi all’incerto cambiarsi. L’ Africa è così, non la cambieremo certo noi. Prendere o lasciare.