Sorrido ingenuamente ritrovandomi smentito davanti ai miei banali preconcetti.
Una mattina di qualche giorno fa mi svegliai presto e aprendo la cerniera della tenda trovai intorno a me il silenzio, poi il fruscio delle foglie e nessuna persona. Sentii un brivido di felicità. Chissà, credevo che i cinesi fossero ovunque, quasi uno sopra l’altro ma non era così.
Qualche tempo prima nelle montagne dello Yunan, non troppo lontano dal Tibet, assaggiai un dolce locale fatto con pasta sfoglia, ripieno con formaggio di capra, fritto e poi cosparso con abbondante miele. Chiusi gli occhi e sorrisi mentre lo gustavo. La pasticcera d’alta quota non poteva sapere che mi stava regalando il ricordo e il sapore della casa sarda di mia nonna. Quel dolce nell’isola dei quattro mori si chiama Seadas.
Ieri camminavo a testa in su fra i palazzi della Città Proibita di Pechino. Nonostante fossimo in tanti a visitarla, quel luogo magico è stato capace di ipnotizzarmi e confondermi. Osservavo le opere delle dinastie Ming e Qing mentre i pensieri volavano ai palazzi del Vaticano, ai templi cambogiani, alle costruzioni Maya. Questo desiderio dell’uomo di creare sempre e ovunque un legame fra cielo e terra mi fece fantasticare fino a svegliarmi dragone a mia volta, simbolo armonico ed eterno dell’imperatore e della Cina.
Ora mentre scrivo quattro signori di Shanghai si avvicinano, mi fanno capire che a loro piace la mia grafia, che i miei segni su carta, così differenti dai loro, sono affascinanti. Mi sembra buffo, ma provo a spiegargli al contrario il mio desiderio di conoscere i loro ideogrammi così fantasiosi e impegnativi. Ci ritroviamo entusiasti nel contemplarci diversi.
Chiamale se vuoi emozioni, canterebbe il Battisti di Mogol e così anch’io, non trovando parole migliori, continuo a chiamarle così, emozioni.