Nei campi di manioca, con il sederone all’insù e la schiena piegata verso terra, le donne d’Africa zappano il suolo per cercare i tuberi. Nel mercato dei villaggi, sedute per terra fra cataste di banane e mucchietti di pomodori, le donne d’Africa commerciano quel poco che c’è.
Nei cortili polverosi affianco alle capanne di bamboo e paglia le donne d’Africa uccidono le galline, ne puliscono le interiora e cucinano direttamente sul fuoco per tutta la famiglia. Nella savana arsa dal sole le donne d’Africa camminano
erette con un neonato a tracolla e un immenso carico di legna in testa. Nelle miniere di pietra e nelle cave di sassi le donne d’Africa scavano, picconano, sminuzzano e trasportano quintali di roccia. Nelle vecchie scuole dai banchi cadenti le donne d’Africa educano da maestre con quel poco di sapere che la dura vita ha insegnato loro. Nelle fatiscenti strade semi-asfaltate le donne d’Africa stendono il catrame e la ghiaia per rattoppare il possibile. Le donne d’Africa nelle guest house puliscono le camere e tengono i conti. Nei ristoranti cucinano polenta e curry di arachidi. Negli uffici migratori dispensano timbri e visti.Ovviamente incontriamo anche alcuni uomini laboriosi, ma i più sono senza dubbio donne. Una domanda ci sorge spontanea: donne d’Africa, ma tutti gli altri uomini dove sono? Sono al bar ci dicono, sono ad ubriacarsi. Tornano a casa quando hanno fame o voglia di far dei figli, ci dicono ridendo.
Noi diciamo loro che se fossimo una donna d’Africa, con il piccone invece di spaccare pietre, spaccheremmo la testa del nostro marito ubriacone. Le donne ridono ancora di più, sembrano pensarci un attimo, poi si fanno serie e ci rispondono: ma poi i figli chi ce li da?