Altro giro, altra corsa. Nuova dogana, un altro timbro e un bienvenido en Nicaragua appena percettibile oltre il vetro schermato che mi separa da un ufficiale delle migrazioni. Vengo dall’Honduras e pedalo senza fretta nella carretera panamericana da Nord a Sud.
Si crede che la parola Nicaragua significhi abbondanza di acqua. Oltre il mar dei Caraibi e l’oceano Pacifico, le sue terre sono benedette da due laghi di acqua dolce grandi come il mare. In lontananza c’è sempre qualche vulcano a rompere la monotonia della giungla fitta su colline morbide. Mangio riso fagioli e banane fritte in piccole capanne a bordo strada. Dormo in pensioni economiche dove l’unico refrigerio è un ventilatore a soffitto che smuove più zanzare che aria.
Anche a Granada o Leon, le due città più interessanti, purtroppo non riesco a instaurare quel sano dialogo con la gente del posto, ma solo saluti accennati. I nicaraguensi mi paiono gentili ma diffidenti, respiro più tranquillità che in Honduras, ma meno apertura. Il loro sguardo serio pare nascondere un dolore recente, non ancora dimenticato.
Nella noia delle vie di Managua mi rifugio in un museo sulla storia moderna del paese. E finalmente capisco. Comprendo il loro diffidente distacco con l’aiuto di Pablo, custode della sezione fotografica. In perfetto spagnolo mi introduce cautamente in una delle pagine più nere della storia contemporanea mondiale. Le fotografie non mentono. Dal 1934 al 1979 la dittatura feroce della famiglia Somoza, nemica di tutti , ha ucciso, incarcerato, seviziato migliaia di civili, colpevoli solo di pensarla diversamente.
La guardia nazionale nel frattempo rapiva e torturava in nome di chi sa qual diritto, fedele a un capo folle e complice di una delle tante ideologie sbagliate del ventesimo secolo.
In questo povero pezzo di terra lontano e dimenticato da noi, le ombre della storia hanno lasciato una cicatrice profonda e oggi dopo più di trent’anni posso ancora percepirne il dolore. Esco dall’oscurità di quel museo alla ricerca di luce. Scendo fino al grande lago torbido e tossico. Un militare in divisa guardando le onde nere mosse dal vento caldo mi sussurra “sono trent’anni che cerchiamo di ripulirlo, ma una volta fatto il disastro ci vuole più tempo di quel che sembri.”
Non so se stesse parlando del lago o della loro coscienza. Sporca.