Conrad nella “Linea d’ombra” scriveva quanto fosse dolce stare in mare quando sono altri a far la direzione. Così anche noi affaticati dalla responsabilità sul dove e il come indirizzare le nostre ruote, ci siamo fatti ammaliare dall’ILALA, il traghetto merci e passeggeri del lago Malawi.
Il sole è sorto da poche ore oltre le colline Mozambicane a est del lago, quando noi viandanti bianchi ci mescoliamo alle genti del luogo e alle loro strabordanti merci sul molo di Monkey Bay. I motori dell’ILALA sono già accesi e una densa cappa di fumo nera oscura a tratti il cielo ostinatamente azzurro.
Il capitano suona l’ultima triplice sirena e siamo tutti a bordo. A noi stranieri è dato comprare solo biglietti di prima classe e così finiamo nel ponte più alto, quasi troneggiando la fiumana di gente dei ponti bassi. Come nel Titanic, in basso, le classi più popolari, ricche di colori e odori, tra galline e maiali, tra cibo in sacche di tela grezza e bambini a tracolla di madri instancabili. Noi ricchi “muzungo” in alto, al fresco della brezza del lago, confortati da un cameriere personale e da tutta la ingiusta disparità del mondo.
Le bici assicurate affianco a noi guardano la riva allontanarsi e rifiatano. Ci sembrava che per capire meglio il Malawi bisognasse vivere questo lago gigante.
Da 70 anni l’ILALA solca le sue acque spesso agitate e ancora oggi rimane uno dei mezzi più sicuri per raggiungere alcuni villaggi remoti. Penso a Livingstone che si prese per primo il merito di scoprire questo lago e con il supporto della Scozia decise di cristianizzare l’area, scelta discutibile, ma anche di porre un freno alla tratta degli schiavi che dal centro Africa facevano rotta verso il Mozambico, scelta questa meritevole.
Il lago è ancora il fulcro e l’economia del paese. Centinaia di piccole canoe di pescatori immergono le reti notte e giorno e nell’aria quasi ovunque si respira l’inconfondibile odore di pesce che si essicca al sole. Io uomo di terra soffro il forte rullare del traghetto, il lago non è calmo e come un mare incute timore. Due notti passiamo a bordo, dormendo all’addiaccio sotto un bel cielo di stelle mentre l’Africa ci scorre accanto mai silenziosa, mai scontata, mai facile.
La dolce monotonia della navigazione è spezzata solo dal fermo in ancora vicino ai villaggi. Il traghetto ha troppo pescaggio per attraccare, così rimanendo al largo viene prese d’assalto dalle canoe, in un trasbordo singolare da pirati di mare. Dopo ore di navigazione la noia o forse la curiosità vince le barriere di classe e così loro salgono da noi e noi scendiamo da loro, ai ponti bassi dove è risaputo esserci il cibo migliore senza tanti inchini e con un fondo di sincerità in più.
Come sempre mi domando per quanto tempo ancora noi bianchi occuperemo con la forza dei dollari il ponte alto e privilegiato dell’Africa. Non ho risposta ma ricordo con cinismo la immensa verità del Titanic: se la nave affonda, affondiamo tutti, ricchi e poveri.