Sudafrica. Pedaliamo tutto il Sud, da Cape Town fino a Durban, poi su verso lo Swaziland. Iniziamo dal Capo, di cui i primi scopritori europei furono i navigatori portoghesi, poi succeduti dagli olandesi che fondarono la prima colonia, sconfitti poi dagli inglesi che ne presero il possesso. Cominciamo ad ascoltare le prime storie sudafricane, dall’apartheid indietro fino alle guerre anglo-boere, cioè le guerre degli inglesi contro gli olandesi che si erano stanziati fino a diventare agricoltori, in olandese appunto boer.
Un signore di origine inglese che aveva combattuto nell’esercito sudafricano al tempo dell’apartheid, ci racconta della lotta a quelli che il governo allora chiamava terroristi. Per sciogliere le perplessità del mio sguardo ci spiega che oggi è stato loro restituito il nome di freedom fighters, ovvero coloro che lottavano contro l’apartheid. “Ma il governo allora ci diceva che quello era il nemico, e noi facevamo il nostro dovere, anche se noi inglesi eravamo cresciuti in un background diverso: non eravamo noi a volere l’apartheid, erano i boeri.”
Ma il suo amico, di origine boera, non è d’accordo. “Furono gli inglesi che incominciarono tutto” ci spiega lui “con il loro onnipresente sentimento di superiorità”.
E con qualche bicchiere del loro drink nazionale, le lingue si sciolgono. Si mischia il brandy alla Coca-Cola e si confondono storie antiche e rancori moderni.
Su qualcosa però sono d’accordo i due amici: se l’attuale economia del Paese è in crisi, e se i livelli di servizi pubblici, educazione in primis, sono ai minimi storici, è tutta colpa del corrotto ANC, il partito che ha raccolto l’eredità di Mandela e che governa il Paese dalle elezioni democratiche del ’94. Inoltre, concordano, se vincesse il fronte politico più estremista che minaccia la confisca delle proprietà dei bianchi, il Sudafrica andrebbe definitivamente in rovina, esattamente com’è successo allo Zimbabwe del dittatore Mugabe.
Noi torniamo sulle nostre bici e dopo la meravigliosa Garden Route, entriamo nel Transkei, zona molto povera dove il governo dei bianchi aveva confinato la popolazione nera con limitate libertà. Nessuna industria, quasi zero agricoltura, si vedono solo pascoli e le tipiche casette circolari di questi villaggi dispersi fra aride colline.
Chiediamo ospitalità nel giardino di un ragazzo sorridente di nome Avela, di etnia Xhosa come la maggioranza della gente di questa regione. Sia lui che sua moglie lavorano nell’educazione e ci spiega che gli impieghi statali sono quasi l’unica prospettiva in queste terre, poiché in seguito alle repressioni durante l’apartheid non è mai nata una vera cultura imprenditoriale.
Ci sarebbero tante altre storie e punti di vista da raccontare, come quello dei Khoisan di Cape Town, che furono i primi abitanti del Sudafrica, oppure quello degli indiani che furono portati dagli inglesi a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero di Durban.
Io ascolto, ascolto tutte le storie e provo a farmi un’idea più nitida delle intricate dinamiche di questo Paese. Ma ancora non sono riuscito a vederci chiaro, e soprattutto a respirare un’aria di pace e fratellanza in quella che viene chiamata la Rainbow Nation, la Nazione Arcobaleno. Chissà, forse è davvero una democrazia troppo giovane, diamogli un po’ di tempo per vedere se davvero vogliano fare pace.