Da tre mesi osservo l’inverno canadese e il freddo delle sue persone. Come ora, mentre ammiro Vancouver da English Bay, oltre i vetri di Starbucks. Dentro e fuori la caffetteria troppe persone solitarie, vestite a modo, in un broncio grigio, difensivo e asettico.
Sarà l’oceano dinanzi ad incutere timore? Saranno gli alti ghiacciai alle spalle a richiedere cautela?
Il loro sorriso quando appare è cordiale, ma non riesce a convincermi. Ho sempre preferito il sorriso naturale. Uno dei tanti homeless che popolano i marciapiedi mi chiede un dollaro, ma anche lui sembra non guardarmi negli occhi. In realtà stanno tutti aspettando il sole.
Una amica canadese mi dice di non aver tempo per qualsiasi tipo di relazione. Prima la carriera. Gli amici sono importanti, ma meno della palestra. Il partner meno del successo. In ogni modo, l’uomo dei sogni, lo troverà su Tinder in appuntamenti online.
Cerco altra gente. Entro entusiasta al Canucks Arena per la partita di hockey su ghiaccio, sport nazionale. L’atmosfera è allegra, da grande show, più vicina al concerto che al calcio. Il Canada è tutto in questo gioco, cosi’ apparentemente armonioso, una danza artistica sui pattini. Fino allo scontro brutale, uomo contro uomo, a cercare la rissa. Il balletto diventa ring, violento a suon di pugni e spinte. Il disco scivola veloce sul suolo ghiacciato ma prima della visione di squadra percepisco l’estremo individualismo. E’ più facile l’azione personale rispetto ai passaggi coreografici.
In tribuna, tra colleghi di lavoro ancora in cravatta, popcorn e birra, come al cinema.
In questi mesi di letargo Vancouver è un film in bianco e nero.
Torno alla bici, l’avevo legata a un palo nella ricca down town.
Ma non c’è più.
Strano. Rubata.
Proprio ora, nel nostro mondo ricco e sicuro.
I sogni comunque non ce li possono rubare.
Qui ho imparato che il sole non si deve aspettare. Ma bisogna andarlo a cercare.