Sharak, le sette di sera, un caldo ancora insopportabile. Le ultime pedalate nella terra iraniana dopo un mese di incontri, scoperte, mal di pancia e sudate. Appoggio la bici ad un albicocco carico di frutti vicino ad un campo di grano già mietuto. Spiego la carta geografica, studio le prossime tappe perchè da domani ci aspetta il deserto turkmeno da attraversare in cinque giorni, come scritto impietosamente sul nostro visto di transito. Marco monta la tenda, è allegro, forse come me emozionato per la vicina frontiera. Io cerco di ritrovarmi in questi innumerevoli Stan, desinenza per indicare Nazione in Russo, tra l’Afghanistan e il Kazakistan, il Tajikistan e il Kirgikistan. Il nostro punto carta prevede il passaggio attraverso il Turkmenistan e l’Uzbekistan. La mattina seguente ci svegliamo presto, compriamo acqua con gli ultimi Rial, superiamo il check point persiano senza problemi, attraversiamo un fiume in secca e ci troviamo in terra turkmena. A volte le frontiere sono linee immaginarie, perlopiù disegnate dalla geopolitica mondiale per dividersi territori; qui non è così. Un ponte, cento metri e i tratti somatici cambiano repentinamente, gli occhi diventano a mandorla, gli zigomi divengono stranamente pronunciati, la pelle è più scura, i denti sono rivestiti d’oro. Restiamo immobili ad osservare i militari, hanno una divisa verde scuro e un cappello a larghe tese, mi ricordano i soldati vietnamiti visti solo nei film. La razza turkmena sembra un perfetto incrocio tra i curdi e gli ormai vicini cinesi e ci disorienta. La lingua si trasforma nuovamente così come la moneta, l’abbigliamento delle donne e il modo di sedersi a tavola. Il controllo dei passaporti è minuzioso, la perquisizione nostra e dei bagagli è eccessiva, sproporzionata, quasi angosciante. Fuori dal gate militarizzato siamo di nuovo liberi, spensierati, ci abbracciamo e un deserto, per noi romagnoli sterminato, ci attende. Non mi aspettavo nulla da questa terra da attraversare velocemente, ma come spesso accade a chi ha poche pretese, ricevo tante sorprese.
Così ogni sera dopo sette litri d’acqua trangugiata e la pelle veramente dorata, all’arrivo in qualsiasi villaggio più di una persona è pronta ad accoglierci, ad offrirci la cena, una doccia fresca, un luogo dove dormire gratuitamente. Mi commuovo dinanzi a questa ospitalità così rara, genuina, preziosa, che ci è stata offerta senza chiedere, in ugual misura da chi aveva poco in mezzo al deserto e da chi aveva molto nel centro della città di Mari.
Come un treno che è passato veloce sono già in Uzbekistan, ma parte di me è ancora lì, nel mezzo del mezzo del nulla turkmeno. I miei pensieri sono ancora a cena con sconosciuti cordiali, tociando pane da una unica zuppa posta al centro della tavola, come a ricordare a chiunque passi che la Vita è Condivisione, scambio reciproco, apertura verso gli altri..e ho come l’impressione che la mia casa futura avrà tante sedie quante porte aperte.
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