Quando si è malati si ha una sensibilità maggiore, direi un’intolleranza verso gli odori e i rumori, verso le cose brutte in generale.
In pausa a Puquio, pueblo andino nel Perù meridionale, aspettando che il mal di montagna ci desse tregua, cercavamo di riposarci nel nostro hospedaje . Nel mezzo di un terribile caos guardavo con orrore questa costruzione priva di senso, con tubi di scolo che scendevano da ogni parte.

E con i tipici ferri di armatura che, aspettando chissà quale benessere, uscivano dalla struttura in calcestruzzo per eventuali piani successivi, rendendo gli edifici ancora più brutti e visibili al di sopra di quelli affianco.
Allora ho preso la via per il mercato, ma anche per strada vedevo solo sporco e immondizia, dentro e fuori le soglie delle case. Ho chiesto un surtido e keke alla bancarella di una signora del mercato, ovvero succo di frutta e torta, poco distante da macellai e pescivendoli. Ognuno vuotava i resti del suo negozio, fosse sangue di vacca o interiora di pesce, in un piccolo canale di scolo a cielo aperto alle mie spalle, il tutto a peggiorare la mia nausea.
Poi ho visto la nipotina della signora della bancarella che mi sorrideva, timida sotto la sua berrettina verde, mentre la sua mamma estraeva succo dalle canne da zucchero. Quel sorriso mi ha ridato la pace, ovattando ogni cattivo odore e rumore: mi sono guardato intorno e ho visto altre donne dai grandi cappelli e dai vestiti colorati vendere frutta e verdura dentro enormi ceste di vimini, tenendo per mano bambini dai capelli liscissimi e dagli occhi vispi e scuri.
Niente stucchi e niente trucchi, niente tacchi e push up, niente Chanel e Calvin Klein, niente creme abbronzanti e anti rughe, niente lettini e sdrai, niente mohito e caipiroska, niente Donna Moderna e Men’s Health.
Non c’era nemmeno una di queste cose nella bellezza che ora mi circondava.
Una bellezza così autentica che non ha nulla da nascondere e ancor meno da fingere, così genuina che non si scandalizza per un dito nel naso.