Siamo a Potosì, città andina della Bolivia meridionale, che nella sua massima espansione fu la più ricca del paese, forse di tutto il Sud America. Tutto grazie a una miniera di argento, diventata così il suo simbolo.
Decidiamo quindi di visitare la famosa mina.
Riceviamo l’equipaggiamento necessario, incluso elmetto con torcia elettrica e stivali di gomma.
Prima tappa al mercato, dove la guida ci fa comprare doni per i mineros, come aranciata, foglie di coca, alcool puro e dinamite. Dopo una veloce visita agli insediamenti dei minatori, entriamo nel ventre della fatidica montagna.
Visitiamo il Tio, il Diablo protettore e simbolo della miniera. Ci spiegano che la cultura inca divideva l’universo conosciuto in tre mondi: quello celeste simboleggiato dal condor, il mondo terreno troneggiato dal puma, infine il mondo sotterraneo identificato dal serpente. Ed essendo questo il submondo, qui non vigono le leggi del cattolicesimo.
Così al Tio, ogni primo venerdì del mese si offrono foglie di coca, alcool, tabacco, per chiedere che la sorte faccia loro trovare il minerale buono. E magari anche di salvare la pelle.
La miniera, un unico monte chiamato Cerro Rico, venne sfruttata dagli spagnoli dal 1545 fino al 1825, quando la Bolivia ottenne l’indipendenza. Gli spagnoli obbligavano i boliviani a lavorare alla miniera per 3 o 4 mesi all’anno, in una sorta di schiavitù temporanea.
Con l’indipendenza del Paese la miniera passò prima ad imprese private poi al governo.
A questa ultima epoca risalgono tutte le infrastrutture oggi presenti nella miniera. Con la crisi dei prezzi dei minerali del 1983, il governo decise di chiudere le miniere statali, con conseguente incremento della disoccupazione.
Dal 1985 la miniera torna ad essere sfruttata, ma questa volta da privati, che comprano dallo Stato concessioni per piccole porzioni di miniera dove autonomamente entrano, scavano, portano fuori il materiale che poi rivendono alle imprese esterne che raffinano il minerale estraendo argento, zinco, rame. Per un guadagno di soli 100 dollari a testa 7 mineros lavorano un’intera settimana per riempire un camion da venti tonnellate.
Noi entriamo da un piccolo tunnel alto poco più di me, ma che in certi punti, tra puntelli ceduti, si abbassa fino a doversi rannicchiare per andare oltre, la mia claustrofobia latente mi fa aumentare il battito cardiaco.
Per passare da un livello all’altro si attraversano tunnel verticali o quasi, labirinti spaventosi; alcuni di questi si aprono come voragini infernali ai nostri piedi, per attraversarli si cammina su precarie assi di legno.
La montagna ormai è una groviera, che ancora si fora, si fa brillare, si svuota, e così si continua seguendo le vene dei minerali.
Ma il materiale rimasto in questa montagna stuprata da più di 500 anni è ormai di terza scelta, per cui i guadagni di questa gente sono sempre più esigui, in condizioni di lavoro terribili, con misure di sicurezza inesistenti e con una speranza di vita che non supera i 40 anni.
Ogni volta che incontravamo i lavoratori solitari, porgevamo loro i nostri doni: la soda da bere insieme all’alcol per tenersi pulita la bocca, le foglie di coca mischiate al bicarbonato per attenuare la fame e la fatica, la dinamite per velocizzare il lavoro del piccone.
Li guardavo cercando di nascondere i miei sentimenti, ma mi sentivo piccolo, oltre che terribilmente impaurito, mentre la mia testa combatteva chiedendosi se questi erano dei folli, visto che ora nessuno li obbliga a morire così, o se siamo noi troppo viziati dai nostri privilegi.
Non mi sono risposto, ho deciso di non farlo, ho solo cercato di apprezzare maggiormente la mia condizione di dorata fortuna.