Una strada ben più lunga di quella che taglia il deserto australiano del Nullarbor attraversa un luogo apparentemente anche meno popolato del deserto dei Gobi. Siamo in Siberia, in sella alle biciclette, qui, macchine del tempo. Macchine del tempo perché muovendoci nello spazio ci muoviamo nella storia. Sbalzati nel passato incontriamo un villaggio, case in legno e tetti in lamiera, automobili anni settanta e botteghe dove la commessa, giovane ma già sdentata, somma il conto col pallottoliere.
Macchine del tempo perché non sappiamo mai che ore sono, ci svegliamo con il sole e ci addormentiamo con le prime stelle. Ci ambientiamo alla Russia selvaggia e incontaminata, beviamo l’acqua dei torrenti, troviamo riparo sotto un ponte o in un bosco di betulle, accendiamo il fuoco con i rami dei pini, ci laviamo nei freschi corsi d’acqua, a fatica ci difendiamo dalle assetate zanzare e dai fastidiosi tafani.
Macchine del tempo perché esse stesse, con la loro semplice meccanica, sembrano esistere da sempre e su di loro la strada diventa la culla dei sogni, il fiume dei pensieri.
Macchine del tempo che qua non funzionano. Percorriamo la via infinita che porta a Vladivostok, una terra che non cambia mai, una landa senza nessuno. Monotona e malinconica regione che anche nella calda e corta estate sembra rimanere in letargo. L’inverno trascina il suo silenzio fino ad agosto per poi ricominciare nuovamente. Superiamo una collina e davanti troviamo un oceano verde demoralizzante, arriviamo in cima ad una altura e vediamo solo un mare di nulla su tutti i fronti.
Così per venti giorni e il tempo sembra non finire mai, non vediamo l’arrivo, è troppo lontano. I secondi diventano minuti e le ore sembrano settimane in questa successione lentissima di immagini ripetute all’infinito e sfiniti da questo niente desolante.
Macchine del tempo istruzioni per l’uso: evitare l’utilizzo nella taiga sconfinata.
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