Un carro blindato ci ha suonato il clacson per incitarci ed un altro, con un inconsueto segno di saluto, ci ha puntato il cannone prima di proseguire sulla corsia opposta. Erano i militari turchi che continuano a controllare l’estremo est della loro nazione, il vecchio Kurdistan. I ragazzi israeliani, in vacanza sulle spiagge thailandesi, ci hanno parlato del servizio di leva obbligatorio, per uomini e donne. Ci hanno detto che devono difendere il paese e che i tre anni in divisa sono un onore.
I vietnamiti di Hanoi ci hanno mostrato tatuaggi, macchie sulla pelle di elicotteri abbattuti, tratti indelebili di orgoglio per la nazione. Un anziano signore russo si è avvicinato e mi ha sussurrato all’orecchio che nel 1985, in Afganistan, il suo nome di battaglia era ‘devil’. Sasha, siberiano di Habarovsk, si è commosso ricordando i compagni di guerra in Cecenia, lui era lì e li ha visti morire.
Michael, compagno di viaggio, ex soldato inglese, più volte ci ha raccontato storie sulla guerra del golfo e la guerra ai talebani, scontri a fuoco e amici caduti.
In questo viaggio sentiamo spesso parlare di guerra e ora, in Corea, scopriamo che la guerra fra nord e sud non è mai stata conclusa. Non è mai stato firmato un accordo di pace definitivo dopo quel cessate il fuoco del 1953. A Seoul, come su tutta la costa est, nonostante l’aria stupendamente tranquilla che si respira, è facile incontrare l’esercito armato che pattuglia una strada. Sono normali i bunker sul lungo fiume e un campo d’addestramento recintatissimo, alle porte della capitale, da dove provengono i rumori delle fucilate. Non lontano dalla zona demilitarizzata, i carri armati in assetto da combattimento ci sfilano sulla sinistra.
Lungo la costa pacifica barriere di filo spinato delimitano le spiagge e i soldati sono appostati sulle torrette di vedetta. Abbiamo incrociato camionette cariche di ragazzi con fucili e mitragliatori, giovani coreani che devono essere pronti a sparare contro altri coreani, non diversi da loro. Non c’è odio ne rabbia nei loro sguardi, non c’è voglia di vendetta nel loro spirito, forse c’è paura di perdere la libertà ma credo che siano lì solo per politica.
Non voglio dire questa guerra è giusta o quella guerra è sbagliata, io questo non lo so, mi limito ad ascoltare i racconti di chi le pallottole le ha sentite fischiare vicino alla orecchie. Però mi aspetto che almeno in Corea la guerra si possa evitare. I coreani sono un unico popolo, stessi occhi e stesso idioma, stessa pelle e stesso sangue, ed è giusto, come tanti qui sperano, che tornino ad essere un’unica nazione, senza spararsi addosso.