E’ il giorno ventotto aprile dell’anno duemilatredici. Siamo vicini ad un cratere profondo trenta metri. Un buco immenso nella terra provocato da una meteora circa novanta anni fa, proprio sul confine tra Turchia ed Iran. La zona è presidiata dai soldati dell’esercito turco, amichevoli e tranquilli ci chiedono informazioni sul campionato italiano di calcio. Sono le tre del pomeriggio e dopo qualche tempo passato tra le fredde montagne sentiamo il tepore del sole, classico dei primi raggi primaverili. Una vallata immensa attraversata da una rete metallica e filo spinato a tracciare la frontiera. Il campeggio è vietato e a prima vista non ci sono luoghi per mimetizzare la nostra tana. Notiamo una torretta circolare, alta tre metri e mezzo costruita con grandi mattoni in pietra che ci ricorda vagamente i nuraghe sardi. É un appostamento militare che appare inutilizzato e ci sembra l’unico nascondiglio possibile per la tenda. Parcheggiamo le bici lì vicino ed entriamo dallo stipite. Il pavimento è sporco, ci sono legni, chiodi e pezzi di pietre in frantumi. Notiamo quattro finestrelle e una scaletta in metallo che porta sul tetto. Sembra decisamente un luogo in disuso. Con un pezzo di tavola in legno puliamo il suolo facendo così spazio per il nostro telo. Aspettiamo il tramonto riparando qualche vecchia foratura delle camere d’aria con gli occhi rivolti verso il monte Ararat, il gigante alto cinquemila metri con la sua vetta bianca ricoperta dalla neve. La vallata è spoglia, non ci sono alberi e solo qualche arbusto ed erba. Un pastore con il suo gregge di capre si avvicina e ci chiede un po’ d’acqua da bere. Qualche militare passa dalla stradina vicina e ci saluta dal comando del suo carro blindato blu suonando il clacson e puntandoci simpaticamente contro il mitragliatore. Alle nostre spalle abbiamo la frontiera e sulla strada una interminabile colonna di tir sta aspettando di entrare in Iran. Che vita quella del camionista, viaggiatore come noi ed in bici raccogliamo sempre la sua simpatia. Il buio cala e dopo qualche scatto al limpido tramonto iniziamo a montare la nostra casa aiutandoci con la luce della lampada caricata tutto il giorno al sole. Posizioniamo tutto dentro al nascondiglio e così scompariamo dal mondo circostante. Cuciniamo un sano mezzo chilo di pasta e lo mangiamo di gran gusto lasciandone un piatto per la colazione del giorno dopo. Rivolgiamo lo sguardo al cielo, invaso dalle stelle. Il rumore della frontiera e l’infinita fila dei camion ci accompagnano tutta la notte, ma noi stiamo già dormendo. Dormendo, sognando e realizzando che è possibile sopravvivere anche nel profondo Kurdistan, dove la guerra civile ha regnato per venti lunghi anni e solo da pochi le genti di questo luogo stanno frenando la loro rabbia. E rimane la notte, le biciclette, l’esercito, una montagna immensa che sovrasta una valle sterminata, una frontiera controllata e noi…inconsciamente liberi.
Scritto da Marco Meini